Una lettera alla Cei (Conferenza episcopale italiana) per esigere di far luce su un sommerso di abusi e di violenze, che in Italia viene insabbiato in molti modi, e per dare giustizia e dignità alle vittime: le donne abusate all’interno della Chiesa cattolica. Il firmatario è il Coordinamento #ItalyChurchToo, composto diverse associazioni laiche e cattoliche, professionisti e semplici cittadini e le stesse vittime, la componente più importante, che chiedono ai vescovi di affrontare il problema e di garantire trasparenza, anche nei confronti degli stessi cattolici.
Ad inquadrare il fenomeno degli abusi e a raccontare dell’iniziativa è Ludovica Eugenio, redattrice del settimanale di informazione religiosa Adista e portavoce del Coordinamento.
“A partire dagli anni 2000 è emerso in tutta la sua devastante portata il fenomeno della pedofilia, o pedocriminalità come sarebbe più corretto definirlo, è successo negli Stati Uniti con un’inchiesta del Boston Globe sui minori – spiega Eugenio -. Di violenza sulle donne tutt’ora si parla poco o niente: non si sa degli abusi sulle religiose, sulle donne adulte vicine alla Chiesa e sulle persone cosiddette vulnerabili. Il problema è che ci sono delle dinamiche interne che rendono questo fenomeno molto più difficile da scoprire. Nel caso delle religiose il fattore principale del silenzio è proprio il sistema gerarchico in cui si trovano, sia che si tratti di comunità monastiche il cui sistema di controllo è molto rigido, sia che si tratti invece di comunità con delle regole meno strette. È evidente che per una vittima trovarsi all’interno di una struttura che ha il pieno controllo sulla sua persona è molto complesso decidere di denunciare. Se rimane all’interno della congregazione rischia di non essere creduta, o – un classico - di essere accusata di aver provocato l’abuso da parte del predatore, che generalmente è il direttore spirituale o il prete confessore. Tutto parte come abuso di potere. e difatti, a volte l’abuso, anche solo psicologico, ugualmente devastante, è attuato dalla superiora, in nome della sua autorità. Se, invece, la religiosa decide di uscire dalla struttura ecclesiastica, si trova comunque isolata e solo dopo un lungo percorso di maturazione, di consapevolezza di ciò che ha vissuto e anche di accompagnamento terapeutico può arrivare realmente a una denuncia dell’abuso subito o a immaginare una ricostruzione della propria vita”.
Le suore preferiscono non parlare, ma il problema è reale e non si può chiudere gli occhi.
“Ultimamente è stato pubblicato un articolo accademico in Germania, in cui per la prima volta si parla degli abusi riproduttivi: quelli su donne, anche minori, da parte di preti, che sfociano poi in una gravidanza. L’articolo è veramente impressionante perché squarcia il velo su una realtà ancora più nascosta: la donna abusata viene isolata completamente dalla comunità e dalla famiglia stessa di provenienza, è additata come esempio negativo. Denunciare gli abusi ha un portato molto forte sulla condizione sociale della vittima che rischia anche di subire ricatti e rappresaglie. Oltre al forte senso di vergogna l’abusata non potrà mai rivelare al bambino l’identità di suo padre. A volte capita che sia il prete a spingere all’aborto, e si arriva così ad un cortocircuito”.
Quando per la prima volta è comparso tra le cronache l’argomento abusi sulle religiose?
“Un primo caso si è avuto alla fine degli anni ’90, per un’indagine su due religiose abusate in Africa che denunciavano la situazione. All’epoca, con la diffusione dell’Aids, le religiose rappresentavano una sorta di “bacino di utenza” sicuro per i preti che volevano avere delle relazioni sessuali non a rischio. L’inchiesta molto presto è cascata nel nulla, non c’è stato il supporto di una campagna di comunicazione sociale che potesse dare seguito alla denuncia, e questo la dice lunga su quanto sia complicato riuscire a scalfire certe situazioni, dove vigono dei rapporti molto stretti di dipendenza, anche economica, delle religiose all’interno della comunità”.
Adesso c’è la sensibilità giusta e la volontà di affrontare il problema?
“Le varie inchieste in Europa, negli Usa o in Australia, fatte da commissioni indipendenti, hanno aperto uno squarcio sulla realtà sistemica dell’abuso all’interno delle diverse chiese locali. Uno dei pochi paesi in cui non si indaga è l’Italia, un po’ per l’influenza del Vaticano, un po’ per una cultura propria dell’opinione pubblica, anche laica, che non mette sul banco degli imputati la Chiesa e anche perché la Chiesa italiana ha il terrore delle dimensioni del problema che potrebbero emergere. Gli stessi media italiani difficilmente se ne occupano in modo sistematico e serio. Si parla solo se c’è il singolo caso, a suscitare la pruderie del pubblico e per soddisfare un certo gusto morboso, poi tutto svanisce. Spesso si è molto compiacenti con la Chiesa, anche a livello politico, lo Stato non chiederà mai al clero di denunciare abusi, c’è un sistema di insabbiamento e di copertura strutturale facilitata anche dal Concordato che esenta il clero dall'obbligo di denuncia. Però, anche in Italia cresce lentamente la consapevolezza tra cittadini laici o credenti della necessità di una riforma della chiesa in cui i diritti delle vittime, minori, donne e persone adulte vengano affermati. Ecco come è nato il Coordinamento: la Chiesa cattolica deve lasciarsi indagare sulle proprie responsabilità, un'operazione di trasparenza è il primo passo verso la giustizia nei confronti delle vittime. Ci poniamo come pungolo verso le istituzioni, per far sì che anche in Italia si faccia chiarezza. È l’unico sistema che l’istituzione ha per recuperare anche credibilità”.
Qual è la situazione nelle altre confessioni?
“Al momento le inchieste maggiori sono state fatte all’interno della Chiesa cattolica, è vero anche che all’interno delle altre chiese ci sono dinamiche diverse, anche rispetto alla formazione e alla vita dei sacerdoti: i cattolici sono vincolati al celibato, hanno una dimensione di vita affettiva e relazionale compressa e repressa, sono costretti a una totale rimozione della propria sessualità mentre nelle confessioni cristiane non è così; nella chiesa episcopale ad esempio anche l'orientamento sessuale è stato accettato e integrato, tanto da prevedere la presenza di presbiteri gay, e c’è una libertà di esprimere la propria maturazione sentimentale-affettiva, relazionale e sessuale completamente diversa rispetto al clero cattolico. Inoltre, il ruolo del ministero ordinato cattolico ha potuto contare finora su una sacralizzazione tale per cui la vittima si sentiva messa di fronte a una figura di mediazione tra l’umano e il divino, in un rapporto forzato e con delle forti dinamiche di asimmetria di potere. Cosa che ad esempio nelle chiese evangeliche non c’è, il pastore ha un ruolo funzionale all’interno della comunità, non è una figura appesantita dalla sacralizzazione. Lo dimostra il termine stesso pastore: non si usa il termine “padre”, usato nella tradizione cattolica, che crea un cortocircuito spirituale-familiare-sacrale, rendendo più difficile per la vittima – se si tratta di una religiosa - rendersi conto di una corretta visione dell’obbedienza per cui si è fatto voto, e, se si tratta di un minore, stabilendo una subdola sovrapposizione di ruoli. In ogni caso c'è una sproporzione, una asimmetria di rapporti, una differenza quasi ontologica tra abusatore (prete, religioso) e vittima. Di fronte, invece, si ha un essere umano con molte problematiche e carenze, non certo una figura divina”.
Si sono riscontrati abusi nei seminari?
“Il seminario è uno dei luoghi in cui avvengono gli abusi. Un tempo, i seminari minori per ragazzi dagli 11 ai 14 anni erano più diffusi. Per la famiglia mandarvi i figli significava dare l’opportunità di studiare e di avere un sostegno, spesso non era una scelta dettata da motivi religiosi. I ragazzini venivano cooptati in un universo lontano dalla famiglia e totalmente maschile, in un contesto dove era molto più semplice per i preti pedofili attuare dinamiche di manipolazione psicologica, che poi spesso portavano a quella sessuale. Il predatore accerchia da tutti i lati la preda e quando è sicuro di avere la sua confidenza, la garanzia del segreto, agisce con l’abuso sessuale. E di casi se ne sono verificati. Sicuramente gli abusi si possono riscontrare anche nei seminari maggiori, dove le dinamiche sono condizionate dalla forzatura di certe carenze strutturali della formazione del sacerdote: siamo dell’idea che nel percorso di formazione andrebbe inserito anche l’aspetto affettivo, così come andrebbe rivisto il ruolo del sacerdote”.
Il rischio è che gli abusati non si rendano conto del danno subito e che lo riversino sugli altri.
“Sì. Spesso accade che l’abusatore sia già stato un bambino abusato e che non ne sia mai diventato consapevole. Per una sorta di amnesia traumatica quel vissuto viene totalmente sepolto per poi magari riemergere con un portato maggiore, a distanza di anche 30 anni, per fattori congiunturali o anche casuali; spesso si manifesta con sofferenze che sfociano in depressione, tossicodipendenza, pensieri suicidari e suicidio. Una terapia psicologica lentamente può riuscire a far venire alla luce ciò che è stato, ma nel frattempo passa davvero una vita. Il Coordinamento si batte anche per eliminare il termine di prescrizione per i reati di abuso sessuale, proprio perché generalmente quando la vittima dopo un suo percorso travagliato arriva alla volontà di denunciare, il reato ormai è prescritto e l’abusatore non paga”.
Nella lettera inviata alla Cei chiedete tutto questo?
“Lunedì 23 la Conferenza si riunisce in Assemblea generale anche per eleggere il nuovo presidente: chiediamo che con il nuovo corso si inizi ad affrontare seriamente il problema, che si arrivi alla consapevolezza di dover fare qualcosa di radicale e credibile. Renderemo pubblica la lettera in coincidenza con l’apertura dell’assemblea, vogliamo spingere i vescovi a esaminare i punti che abbiamo inserito che sono molto precisi e che chiedono misure ben circoscritte. Non si può più rimandare, non si può più tacere e fare come se non ci fossero vittime. Non si può continuare a coprire e deresponsabilizzare preti che hanno abusato semplicemente trasferendoli o lasciarli liberi di circolare anche se già condannati, in nome della tutela dell'immagine dell'istituzione, senza alcuna attenzione alle vittime. Finora, infatti, la strategia è sempre stata improntata ad un criterio: che non venisse offuscata l’immagine della Chiesa, che non si facesse scandalo, quindi dettato solo da un interesse autoreferenziale. I preti sospettati o giudicati colpevoli vengono trasferiti da una parrocchia all’altra, in altri comuni, regioni, nazioni, come se si potesse credere che il trasferimento può redimerli o cambiare la loro inclinazione. In realtà solo per nasconderli e farli ripartire da zero in un altro luogo dove nessuno li conosce, e dove continuano, in genere, ad avere gli stessi comportamenti. Il prete pedocriminale è seriale, e dunque sempre alla ricerca di nuove prede. Se la chiesa vuole essere veramente un luogo sicuro deve intraprendere delle iniziative e assumere una politica molto diversa rispetto a quella che ha avuto finora. Che è stata fallimentare. L’assemblea della Cei si conclude il 27 e noi per lo stesso giorno abbiamo convocato una conferenza stampa. Abbiamo chiesto ai vescovi di risponderci entro quella data, di assumerci come interlocutori insieme alle vittime che si battono per vedere riconosciuti minimi standard di giustizia. Speriamo di ottenere una risposta, in caso contrario anche il silenzio lo sarebbe”.
Per aderire al Coordinamento e per rimanere aggiornati sul tema si può mandare la mail a: italychurchtoo@retelabuso.org
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